20-10-2018

Tra biologia e cultura, un equilibrio impegnativo

Tra biologia e cultura, un equilibrio impegnativo Si riporta di seguito un estratto dell’intervento di Maurizio Fea,  medico psichiatra e dirigente di FeDerSerD, in occasione del Convegno Regionale Trentino Alto Adige della Federazione,  “Le dipendenze comportamentali nell’era dei new media”. L’evento si è tenuto a Trento il 5 ottobre scorso.
 
Pasteur ha identificato alcuni dei soggetti biologici che non hanno un buon rapporto con noi, li ha denominati e altri dopo di lui li hanno classificati, ma ce ne sono migliaia di altri che potrebbero essere stati utili per lo sviluppo di quelle competenze che ci hanno permesso di vederli e di conoscerli sempre meglio. Un mondo che ha cominciato ad esistere molto prima dell’alba dell’umanità e che forse sopravvivrà a noi.
Esistevano i batteri e noi non lo sapevamo ma in realtà il nostro organismo, aveva competenza sin dal suo costituirsi, di questi ospiti saltuari o permanenti, discreti o talora disturbanti, che potrebbero pure vantarsi di essere i nostri progenitori cellulari, ma non lo fanno, si limitano a frequentarci e condividere con noi alcune cose. Si può dire altrettanto dei comportamenti? Esistono se nessuno li mette in atto? Hanno natura propria? Vengono classificati e denominati in vari modi, frutto di criteri di carattere culturale, di modelli di inquadramento scientifico, suscettibili anche di passare da una classe ad un'altra in relazione al contesto socioculturale nel quale vengono espressi. Alcuni comportamenti possono prescindere dalla intenzionalità come le risposte automatiche ed autonomiche agli stimoli ambientali, e altri possono moltiplicarsi e ridondare ma solo a certe condizioni e in particolari contingenze (comportamenti compulsivi probabilmente). Dunque i batteri hanno natura biologica mentre i comportamenti si servono delle caratteristiche biologiche degli agenti che li esprimono ma non hanno natura biologica propria, sono funzioni, espressioni di apparati più o meno complessi che hanno sviluppato, tra le diverse modalità di segnalare la propria presenza nel mondo, dei fenomeni manifesti che si possono osservare, a condizione che si sia dotati dei sensori adatti per poterli conoscere.
Esistevano le dipendenze comportamentali prima che qualcuno le denominasse? La prima definizione risale al 1990, quando lo psichiatra Isaac Mark pubblicò un editoriale sul British Journal of Addiction (1990, 85: 1389-1394). Da allora le definizioni di dipendenze comportamentali sono state perfezionate nei presupposti, modificate concettualmente, ampliate di nuove categorie, arricchite di criteri diagnostici e sono diventate un capitolo rilevante e discusso dei manuali di psichiatria, pur non essendo state incluse come categoria specifica nel DSM V e nell’ICDC 10. Nel 2013, un importante passo verso il riconoscimento delle dipendenze comportamentali  come diagnosi psichiatrica è stato fatto quando il "gioco d'azzardo patologico", ribattezzato "disturbo da gioco d'azzardo", è stato allineato con altri comportamenti di dipendenza nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) della American Psychiatric Association (APA, 2013). Fondamentalmente, questo cambiamento nella classificazione del disturbo del gioco d'azzardo è stato favorito da un accumulo di dati che supportano le somiglianze con le dipendenze da sostanze. Così come il numero ed il tipo di batteri è andato crescendo enormemente in ragione delle migliori capacità di riconoscimento, anche le dipendenze comportamentali stanno aumentando.  Il 18 luglio scorso l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha pubblicato l’undicesima revisione della classificazione internazionale delle malattie (International Classification of Disease – ICD-11). Come già preannunciato, in questa nuova classificazione l’OMS ha incluso il “gaming disorder”, il disturbo da gioco, tra le dipendenze comportamentali.
I principi alla base della creazione di nuove diagnosi di dipendenze comportamentali sono spesso piuttosto semplici e per lo più seguono un approccio ateoretico e confermativo. I criteri considerati fondamentali per le addiction comportamentali, sulla base dei modelli proposti da Griffiths e altri per la dipendenza da gioco d’azzardo, sono: conflitto, salienza comportamentale, astinenza, ricaduta. Recentemente altri autori (Kardefelt-Winther & Billieux 2017) hanno proposto criteri più limitati e stringenti per definire le dipendenze comportamentali che si concentrano solo su due componenti: (a) significativa compromissione funzionale o angoscia come diretta conseguenza del comportamento e (b) persistenza nel tempo. Se ulteriori studi sulle dipendenze comportamentali continueranno a trovare omologie fenomenologiche e biologiche con le dipendenze da sostanze, la conclusione corretta potrebbe non essere quella di medicalizzare i comportamenti di dipendenza, ma piuttosto de-medicalizzare il concetto di dipendenze nel suo complesso.
In parte le dipendenze comportamentali si sviluppano e si espandono grazie al fatto che la velocità con cui processiamo le informazioni è stata premiata come modello efficace di comportamento, funzionale in molti contesti e situazioni, ma negativo quando deprime la comprensione dei fatti della vita.  I processi di fitness che l’evoluzione ha usato e continua a usare per selezionare e incrementare le caratteristiche biologiche che si dimostrano migliori per lo sviluppo di specie, divergono dai processi di fitness ambientale che stiamo culturalmente adottando per promuovere modalità adattative funzionali alle logiche di sviluppo che almeno una parte della umanità sembra aver scelto. La fitness ambientale sembra sempre più orientata a premiare comportamenti come la competitività, la semplificazione delle risposte, l’immediatezza e la perdita di orizzonti, la superficialità.
Mentre la natura è cieca e non ha finalità, ma si limita a premiare ciò che si dimostra migliore ed efficiente nel contesto in cui si trova a vivere e operare (vale per i batteri e per l’uomo),  l’uomo modifica l’ambiente in cui opera con strategie culturali e scelte politiche più o meno condivise, e influenza intenzionalmente quei sistemi biologici di valore che regolano le nostre scelte e i comportamenti. Possiamo dire che l’aumento di questi comportamenti indica due cose: un diverso utilizzo del tempo che facilita l’attenzione selettiva verso interessi che fino a qualche decina di anni fa erano limitati a poche situazioni  circoscritte a un numero molto limitato di individui, e un aumento vertiginoso di opportunità che ci permettono di esperire inedite possibilità di regolazione di stati affettivi, di variazioni identitarie, di relazioni sociali, di immagine corporea. Queste opportunità sono frutto dello studio e della progettazione intenzionale di  strumenti e routine che vengono alimentati dalle nostre risposte fisiologiche alle salienze che ci vengono proposte e indicate dagli sviluppatori della tecnologia e dai creativi del marketing. È stato avviato un processo ricorsivo di tipo algoritmico nel quale la creazione di nuove opportunità genera risposte che inducono la creazione di altre opportunità e variazioni più perfezionate che incrementano, o sostituiscono del tutto, le opportunità precedenti. Una cornucopia di abbondanza di cui non si scorge il fondo.
Non fa meraviglia quindi che si “scoprano” sempre nuovi comportamenti di dipendenza e che le analogie tra le modalità e le finalità dei vari comportamenti tendano a suggerire l’inquadramento in una visione unitaria. Ma la domanda a questo punto è se questa visione unitaria debba essere sotto il segno della malattia, con tutto ciò che questo comporta, o vada cercata altrove.